Progettazione partecipata I

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progettazione partecipata I/ participatory project planning I

In un contesto attuale dove le scelte urbanistiche si compiono essenzialmente all’interno di gruppi di potere politici ed economici e i cittadini accolgono le “novità” che modificheranno i loro quartieri date già per certe e indiscutibili, è bene ripercorrere il concetto di progettazione partecipata.

La progettazione partecipata afferma che la progettualità naturale dei cittadini, mobilitati e motivati nell’esprimersi attorno ai problemi del loro quartiere, della loro città, possa condurre l’amministratore alle migliori decisioni. La comunicazione estesa e precisa, il dialogo, l’ascolto e l’interpretazione dei bisogni e dei desideri del singolo e della collettività porteranno ad una progettazione urbanistica efficace e più legata alla cultura del territorio.

Questo modello di pianificazione fu teorizzato, alla fine del XIX secolo, in Scozia, dal botanico e biologo Sir Patrick Geddes (1854-1932) che nel suo saggio “Cities in evolution” traccia i concetti che influenzeranno architetti ed urbanisti di tutto il secolo successivo.

In Italia il traino di queste esperienze, allora avanguardistiche, fu l’architetto di respiro europeo Giancarlo De Carlo che fonda la sua esperienza come progettista non solo sulla semplice trascrizione dei bisogni e desideri della comunità ma soprattutto sulla lettura di quello che la vita quotidiana e il tempo lasciano scritto nello spazio urbano e nel territorio.

Negli anni a seguire gli urbanisti si distolgono dal contatto con la sfera sociale e si concentrano nel semplice supporto delle scelte politiche operate dalle amministrazioni che, con una visione neo-liberista, dettata da una crescente debolezza propositiva e finanziaria, devono necessariamente stabilire accordi con il “privato” e danno il via alla pratica della negoziazione ignorando ogni programmazione urbanistica intesa solo come intralcio burocratico.

Gli accordi negoziali, all’interno delle istituzioni, tra politica e poteri finanziari, scavalcano i piani regolatori e inventano nuove forme di contratto – conferenze di servizio, patti territoriali, accordi di programma – che escludono i cittadini e ignorano il dibattito pubblico.

Edoardo Scalzano, teorico urbanista dell’ateneo di Venezia, si esprime così: “questi accordi negoziali enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale.”

Questi accordi portano generalmente a interventi sul territorio riducibili a tanti metri cubi suddivisi tra residenze, uffici e commercio, un mix funzionale piazzabile ovunque con la stessa insensibilità che ha generato la massiccia urbanizzazione degli anni ’60 che oggi però, esaurite le periferie, si trasferisce in centro. Davanti a questo tipo di gestione i cittadini più motivati alla tutela del proprio spazio, per esprimere il dissenso dalle scelte estranee, trovano come unica forma organizzativa la costituzione di ciò che rappresenta per gli amministratori una delle peggiori angosce: il comitato.

Comitato dei Cittadini contro il Parcheggio Interrato, Comitato dei Cittadini contro l’Abbattimento dell’Ospedale, Comitato dei Cittadini contro l’Elettrosmog, Comitato dei Cittadini contro l’Autostrada, Comitato dei Cittadini contro l’Eolico Selvaggio e così via.

In opposizione a scelte non condivise, sia in ambiti locali sia in ambiti di interesse nazionale (vedi T.A.V.), il comitato ha la capacità dirompente di bloccare le azioni degli amministratori e, quando viene strumentalizzato, di diventare un mezzo di opposizione politica. L’altissimo numero di comitati che oggi si costituiscono “contro” rivela che il rapporto tra i cittadini e l’amministrazione si esprime solo in termini conflittuali. Altri paesi, più sensibili alla democrazia partecipata, si sono dotati di strumenti, tratti prevalentemente da tecniche di comunicazione e di gestione dei conflitti, che  riconducono alla progettazione partecipata, con il duplice scopo di dare voce ai cittadini e ricucire lo strappo con le istituzioni.

Queste tecniche, sperimentate da almeno trent’anni nelle democrazie nordeuropee, raccolgono in assemblea rappresentanti della cittadinanza che rilevano le problematiche all’interno del quartiere, della città. Con il supporto di tecnici, definiti facilitatori, che gestiscono la discussione e con l’assenza degli amministratori, che condurrebbero il dibattito sul piano della propaganda elettorale, i cittadini non solo suggeriscono le possibili soluzioni, ma ne definiscono anche il grado di priorità e consegnano alle istituzioni un vero e proprio documento programmatico.

Alcune esperienze tedesche hanno trasformato questo metodo in una vera e propria kermesse capace di riunire centinaia di persone in ampi spazi, dotati perfino di cucina e area giochi per i piccoli, dove, suddivisi in gruppi, discutere e cercare soluzioni. Queste sessioni di lavoro, che possono durare anche più giorni terminano nel momento in cui i facilitatori, raccolte tutte le proposte, redigono e distribuiscono ai partecipanti il cosiddetto instant report che rappresenta il suggello di un momento di aggregazione della collettività, che ha modo di riallacciare i propri rapporti interni, oggi molto spesso sfaldati e particolari, finalizzata alla ricerca del bene comune.

In the current context in which urban planning choices are made essentially within political and economic power groups and citizens welcome the “news” that will change their neighborhoods already given for certain and indisputable, it is good to retrace the concept of participatory project planning.

Participatory project planning states that the natural capacity of citizens, mobilized and motivated to express themselves around the problems of their district, of their city, can lead the administrator to the best decisions. Extensive and precise communication, dialogue, listening and interpretation of the needs and desires of the individual and the community will lead to effective urban planning and more linked to the culture of the territory.

This planning model was theorized at the end of the 19th century in Scotland by the botanist and biologist Sir Patrick Geddes (1854-1932) who in his essay “Cities in evolution” traces the concepts that will influence architects and urban planners throughout the following century.

In Italy the driving force behind these experiences, which were at the forefront, was the European architect Giancarlo De Carlo who bases his experience as a designer not only on the simple transcription of the needs and desires of the community but above all on the reading of what daily life and time leave written in the urban space and in the territory.

In the years that followed, the planners moved away from contact with the social sphere and concentrated on the simple support of the political choices made by the Administrations which, with a neoliberal vision, dictated by a lack of ideas and financial weakness, require agreements established with the ” private “and inaugurate the practice of negotiation ignoring any urban planning that is intended only as a bureaucratic obstacle.

 

Negotiation agreements, between institutions, between politics and financial powers, bypass urban plans and invent new forms of contracts – service conferences, territorial pacts, program agreements – which exclude citizens and ignore public debate.

Edoardo Scalzano, urban theorist at the University of Venice, expresses himself this way: “these negotiating agreements emphasize the circumscribed and neglect the overall, celebrate the contingent and sacrifice the permanent, take the particular interest as the engine and subordinate the general interest to it , choose the discreet bargaining room and desert the place of choral evaluation. These agreements generally lead to interventions on the territory that can be reduced to many cubic meters divided between residences, offices and trade, a functional mix that can be placed anywhere with the same insensitivity that generated the massive urbanization of the 1960s which today, once the suburbs are exhausted, it moves in the city center. Faced with this type of management, the citizens most motivated to protect their own space, to express dissent from extraneous choices, find the only organizational form to establish what represents one of the worst anxieties for administrators: the committee. Citizens’ Committee against Underground Parking, Citizens’ Committee against Hospital Abatement, Citizens’ Committee against Electrosmog, Citizens’ Committee against the Highway, Citizens’ Committee against wind turbines and so on. In opposition to unshared choices, both at local level and in areas of national interest (see T.A.V.), the committee has the disruptive ability to block the actions of directors and, when exploited, to become political opposition. The very high number of committees set up “against” today reveals that the relationship between citizens and administration is expressed only in terms of conflict. Other countries, more sensitive to participatory democracy, have equipped themselves with tools, mainly derived from communication and conflict management techniques, which lead back to participatory planning, with the dual purpose of giving citizens a voice and repairing the dispute with the institutions.

 

These techniques, tested for at least thirty years in the democracies of Northern Europe, bring together representatives of citizenship who detect problems within the neighborhood and the city. With the support of technicians, called facilitators, who manage the discussion and with the absence of administrators, who lead the debate at the level of electoral propaganda, citizens not only suggest possible solutions, but also define the degree of priority and deliver to the Administrations a real programmatic document.

 

Some German experiences have transformed this method into a real event capable of bringing together several people in vaste spaces, even with a kitchen and play area for children, where, divided into groups, they discuss and look for solutions. These work sessions, which can last even several days ends when facilitators collect all the proposals, draw up and distribute to the participants the so-called instant report which seals a moment of aggregation of the community, which has the opportunity to reconnect their internal relationships, today very often flaked and weak, aimed at the search for the common good.

 

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